Ti strapperò quel cuore di pietra. La conversione di Lopetegui

Non voleva fare il calciatore, nemmeno l’allenatore, meno che mai il ct della nazionale. Julen Lopetegui voleva solo sollevare pietre. Come il nonno, lo zio e il padre, José Antonio Lopetegui Aranguren, in arte Aguerre II, uno dei più celebri sollevatori di pietre dei Paesi Baschi, dove le tradizioni sono importanti, a maggior ragione se nasci in una famiglia tanto gloriosa. Julen voleva solo essere all’altezza del suo nome. Più o meno negli stessi anni in cui il piccolo Guardiola dettava passaggi nella piazza della chiesa di Santpedor, ad Asteasu, nella provincia di Gipuzkoa, il giovanissimo Lopetegui cominciava ad allenarsi per realizzare il suo sogno: battere il record dei 100 kg nel sollevamento pietre. Senonché, a soffocare le sue ambizioni interviene Aguerre II in persona, che da bambino era stato a sua volta distolto dal pallone in favore dello sport di famiglia. «Lascia perdere le pietre –  gli dice in un tono che non ammette repliche – gli sport tradizionali non hanno futuro, cerca la tua strada altrove».

lopetegisii1234-kuic-u201897529739ztb-490x578el-correoPer non contraddirlo, Julen rinuncia al sogno del record e segue gli amici sui campi di calcio. Si mette in porta, però, un po’ perché tanto non ci vuole andare nessuno e un po’ perché poter raccogliere il pallone con le mani è la cosa più simile a sollevare le pietre. Giovanili nella Real Sociedad – all’ombra della leggenda locale Arconada – fino al 1985, quando lo notano gli osservatori del Madrid, che gli offrono l’opportunità per un prestigioso trasferimento nella capitale. Lopetegui, che ormai ci sta prendendo gusto, accetta, anche se con la maglia dei Blancos riesce a giocare una sola partita, quella del suo esordio in Liga, un derby  in casa dell’Atletico a campionato già conquistato nel 1990. Il prestito al Las Palmas e soprattutto le tre stagioni nel Logroñés gli valgono le attenzioni del Barcellona, che nel 1994 lo porta al Camp Nou. La concorrenza è spietata: oltre al titolarissimo Zubizarreta, ci sono anche Carles Busquets – che ogni tanto si porta agli allenamenti il figlio di sei anni – e Jesus Angoy, già suo vice nel Logroñés, che però nel frattempo a Barcellona ha trovato l’amore e da poco più di due anni è sposato con Chantal Cruijff, primogenita di Johan, il quale giusto cinque giorni dopo le nozze ha portato in città la prima Coppa Campioni della storia blaugrana.

Dopo l’addio di Zubi, le gerarchie sembrano abbastanza chiare: primo Busquets, secondo Loptegui, terzo Angoy. Ma quando Busquets si brucia le mani e deve stare fuori a metà novembre del 1995, Cruijff a sorpresa preferisce il genero a Julen per la partita con il Tenerife. Lopetegui la prende malissimo e glielo manda letteralmente a dire: «Voglio parlare con Cruijff – si sfoga con El Pais – perché ci sono 3 o 4 cose che mi deve spiegare. Adesso sono abbastanza arrabbiato. Preferisco calmarmi e mordermi la lingua per non dire cose di cui potrei pentirmi». Il vice allenatore Carles Rexach giustifica la scelta dicendo che Angoy sembrava “psicologicamente più pronto”, spiegazione che non convince Lopetegui: «La scorsa stagione mi ha fatto giocare a Siviglia che avevo un solo giorno di allenamento e dopo un infortunio, e adesso che sto meglio, non gioco».
Il rapporto teso con Cruijff va avanti ancora per pochi mesi, perché a fine stagione sia Johan sia Angoy lasciano Barcellona e in panchina arriva Bryan Robson. Per Loptegui cambia poco, perché oltre a Busquets, c’è da battere pure la concorrenza del giovane Vitor Baia, portoghese di Oporto come José Mourinho, l’interprete di Robson, che pare si prenda qualche libertà nelle traduzioni. Julen si arrende, torna a Madrid per giocare altre cinque stagioni nel Rayo e poi decide che può bastare.

Potrebbe essere il momento per tornare a casa e riprendere il discorso pietre. Invece i discorsi a cui finisce per dare retta sono quelli di Cruijff, che a Barcellona lo aveva fatto molto arrabbiare ma anche molto innamorare. E che prima di andarsene gli aveva buttato lì di non escludere a priori una carriera da allenatore, che in quel momento Lopetegui non riusciva neanche a immaginare: «Credo che mentre giochi, capisci poco del gioco», ha ammesso lui anni più tardi. Così, quando la Federazione gli offre un posto nello staff dell’Under 17, lui accetta e subito dopo accetta anche la panchina del Rayo Vallecano, lasciato da meno di due anni. Solo che a Madrid le cose non vanno come si aspettava, lui viene esonerato e la squadra retrocede. Forse Cruijff si sbagliava. Forse la panchina non era per lui. Forse non è troppo tardi per le pietre. Passano cinque anni in cui lavora come commentatore in tv, poi a sorpresa arriva la chiamata del Real Madrid, che nel 2008 gli offre la panchina della formazione Castilla. “Cruijff ha sempre ragione”, dice un detto olandese. Sarà anche per questo che Lopetegui decide di riprovarci e tornare in panchina, nella stessa estate in cui il suo amico ed ex compagno di squadra Pep Guardiola viene promosso alla guida del Barcellona.
Dopo un anno nel Real, torna a farsi viva la Federazione, che stavolta gli propone l’Under 19:  Julen dice ancora di sì, nel 2012 vince l’Europeo di categoria con una squadra in cui brillano Saul, Isco e un devastante Jesé, e si guadagna la promozione sulla panchina dell’Under 21. Nel 2013 arriva il trionfo in Israele, con Thiago Alcantara, Morata e Koke che fanno sembrare piccola piccola l’Italia di Florenzi, Immobile e Insigne.

L’anno seguente è il Porto a chiamare per offrirgli la panchina che dieci anni prima ha lanciato l’ex interprete di Robson. Sei mesi dopo, tutta Europa si stropiccia gli occhi quando al Do Dragão la sua squadra rifila 3 gol al Bayern Monaco dell’amico Guardiola nell’andata dei quarti di Champions League, battendolo con le sue stesse armi. Due settimane di complimenti – i primi sono proprio quelli di Pep – e poi si torna sulla terra, 1-6 all’Allianz, dove il Porto può solo applaudire. Ci sarebbero tutte le premesse per aprire un ciclo divertente, se non vincente, ma si sa come vanno le cose a Oporto, ogni estate qualcuno dei gioielli parte e si ricomincia, se poi il gioiello in questione è Jackson Martinez, diventa difficile non accusare il colpo. L’8 gennaio 2016 il Porto già fuori dalla Champions incassa una brutta sconfitta in Coppa di Lega contro il Marítimo. La mattina seguente il presidente Pinto da Costa lo licenzia.

Forse ormai è troppo tardi per tornare al primo amore. Forse adesso si può solo andare avanti lungo la via indicata da Cruijff, per cui «la missione principale dell’allenatore è fare sì che i giocatori abbiano la soluzione per qualsiasi problema». Di problemi da risolvere ne ha la Spagna, che dopo il doppio flop di Brasile e Francia, chiama lui per far rinascere una nazionale in cerca di qualcuno che riesca a tenere in equilibrio tutti quei campioni. Forse solo un aspirante sollevatore di pietre poteva mettersi sulle spalle l’eredità di Del Bosque.

Sulla carta, la partita d’esordio in casa contro il Lichtenstein è una passeggiata. Invece la Spagna arriva all’intervallo avanti appena 1-0, con il gol arrivato proprio a ridosso del 45’. È a questo punto che Lopetegui decide di far fare alla Roja il passo che finora nessuno aveva osato: fuori Thiago Alcantara, dentro Nolito, Sergi Roberto che da laterale di difesa va a fare la mezzala e Piqué a dirigere una difesa a tre. In totale, cinque attaccanti in campo contemporaneamente. Cruijff queste cose le spiegava alla lavagna, il suo ex allievo ribelle le mette in campo. Risultato: la Spagna segna 7 gol in mezz’ora e chiude 8-0, Nolito – che adesso gioca con Guardiola al City – mette la firma su 3 assist. Certo, era il Lichtenstein. Certo, è da vedere se avrà tanto coraggio anche contro avversarie di livello più alto, a cominciare dall’Italia, che all’ultimo Europeo ha costretto la Spagna a prendere atto che gli anni d’oro erano alle spalle. Ma l’impressione è che le pietre dovranno aspettare ancora.

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