Dalle scarpe al velluto. Frank de Boer e la guerra dei mondi

La chiamata alle armi era arrivata a mezzo stampa. “Questo non è più l’Ajax. Non lo è più da tanto tempo. Forse è il peggiore dal 1965 a oggi”. Parola di Johan Cruijff, naturalmente, che nel settembre 2010 così commentava dalla sua rubrica sul Telegraaf la brutta sconfitta rimediata dalla squadra di Martin Jol al Bernabeu contro il Real Madrid. L’avesse detto chiunque altro, non sarebbe stata altro che un’opinione molto severa. Venendo da lui, è una dichiarazione di guerra che ad Amsterdam non possono non riconoscere come tale. Anche perché alle parole segue la mobilitazione: tutti si aspettano Van Basten, invece i primi arruolati sono Dennis Bergkamp e Wim Jonk, seguiti da Marc Overmars ed Edwin van der Sar. E ovviamente Frank de Boer, che al momento del proclama occupa la posizione più scomoda di tutte, allenatore della squadra giovanile A1 (l’equivalente della Primavera) e per questo principale candidato a prendere il posto di Jol, che si ritrova improvvisamente delegittimato. Perché, si sa, qualsiasi cosa dica la dirigenza dell’Ajax, quello che dice Cruijff ha comunque la precedenza.

Gli ex giocatori al potere. A questo mira la crociata indetta da Johan, che già pochi giorni dopo il proclama del Telegraaf si fa trovare davanti alla sede societaria in compagnia di Bergkamp e Jonk e dichiara che sì, lui che finora ha sempre rifiutato un ruolo operativo nel Consiglio dell’Ajax – e per questo c’era chi lo accusava di evitare le responsabilità -, stavolta è pronto a «mettersi la giacca» e sedersi al tavolo dei dirigenti.

In mezzo a tutto questo, c’è Frank de Boer. Il 6 dicembre l’ex difensore viene promosso sulla panchina della prima squadra al posto del dimissionario Jol – da mesi in polemica latente con la società per la cessione di Luis Suarez al Liverpool –, con Dennis Bergkamp nel ruolo di vice. In un certo senso, è la chiusura di un cerchio apertosi dodici anni prima, nel 1987, quando proprio i fratelli De Boer avevano rappresentato il casus belli per il conflitto fra Cruijff e l’allora presidente Harmsen, che si sarebbe poi concluso con l’addio anticipato di Johan alla panchina dell’Ajax. Tutta colpa di un paio di scarpe: i diciassettenni Frank e Ronald, considerati fra i giovani più interessanti di un ricchissimo vivaio, dovevano firmare il loro primo contratto con lo sponsor tecnico e l’Ajax premeva affinché fosse lo stesso che forniva le divise alla squadra. Con un atteggiamento tipico per lui, Cruijff era intervenuto direttamente con i ragazzi, consigliando loro di non firmare subito l’accordo e prendersi tempo per provare altre scarpe. Per Harmsen è un’intromissione inaccettabile, l’ennesima del suo allenatore, con cui aveva avuto un duro scontro in tema mercato, quando gli aveva rinfacciato di aver alzato troppo velocemente l’offerta per lo svedese Peter Larsson, che Cruijff voleva a tutti i costi.

frank_links_enronalddeboermetjohancruijffIn realtà, quello sulle scarpe era uno dei pochi consigli che Johan avesse dato direttamente al giovane De Boer negli anni in cui entrambi erano all’Ajax. A Frank basta la lezione imparata il 6 dicembre 1981 – esattamente 19 anni prima della sua nomina a tecnico della prima squadra -, quando, undicenne, aveva visto Cruijff segnare in pallonetto contro l’FC Haarlem nella prima partita dopo il ritorno ad Amsterdam: «Rimasi impressionato. Era un passo avanti a tutti».

D’altra parte, la lezione vera per De Boer sarebbe arrivata solo con Louis van Gaal, negli anni gloriosi della rinascita dell’Ajax nella prima metà degli anni Novanta: una squadrone formato per otto undicesimi da giocatori cresciuti nel settore giovanile del club, agli ordini di un allenatore perfezionista ai limiti dell’ossessione – e qualche volta anche oltre –, capace di ridurre al minimo il fattore imprevedibilità. Conosce Cruijff dai tempi di Barcellona e fra i due c’è un rapporto di reciproca antipatia e antagonismo ideologico, basato soprattutto sull’utilizzo dei tre attaccanti, per quanto nel sistema di Van Gaal ci sia molto più Cruijff di quanto entrambi siano disposti ad ammettere. Cresciuto con Louis, ma folgorato da Johan, Frank de Boer cammina proprio sulla linea del fronte. L’insurrezione di Cruijff è decisiva nel fargli avere la panchina dell’Ajax, ma una volta lì non può sconfessare del tutto il suo maestro Van Gaal. Così, mentre tutto intorno infuria la Velvet Revolution – che di velluto ha solo il nome, visto che in pochi mesi vede rotolare le teste di mezzo consiglio direttivo dell’Ajax, più quella del presidente Uri Coronel -, non gli resta che cercare sul campo una terza via che porti la squadra fuori dal pantano tecnico-tattico in cui ristagna da quasi dieci anni.

L’esordio è più che incoraggiante: un bel 2-0 al Meazza contro il Milan, avversario nel 1995 nella finale in cui l’Ajax di Van Gaal aveva riportato ad Amsterdam una Champions League che mancava dai tempi di Cruijff. Poi comincia un fine lavoro di diplomazia. Quanto al modulo, c’è poco da scherzare: il tridente è un caposaldo e, almeno all’inizio, sembra più prudente non azzardarsi a toccarlo. Una deroga se la concede invece per quanto riguarda lo spazio, proprio il concetto cardine del calcio totale: il suo Ajax non sfrutta il campo soltanto in larghezza, ma anche in lunghezza, aumentando le distanze fra i reparti per creare dieci virtuali uno contro uno. Il tutto condito con ritmi moderati e un possesso palla che all’inizio fa sbadigliare i tifosi dell’Ajax – che comunque hanno altro da fare, visto che al 14’ di ogni partita giocata all’Arena parte il coro “Stand up if you support Johan” e tutto lo stadio si alza in piedi – ma che alla lunga si dimostra efficace. A maggio, la rivoluzione di velluto può celebrare il suo primo trionfo: il titolo di Eredivisie, il trentesimo della storia del club, conquistato nell’ultimo turno di campionato, nel giorno del compleanno di De Boer, grazie al sorpasso sul PSV del ventunenne Kevin Strootman. Frank diventa così il terzo olandese a vincere il titolo con l’Ajax sia da allenatore sia da giocatore, dopo Rinus Michels e Ronald Koeman.

Nel frattempo, il resto dell’esercito di Cruijff è al lavoro per restituire all’Ajax la sua anima: Wim Jonk dirige De Toekmost  (il settore giovanile) insistendo sulla formazione piuttosto che sui risultati e introducendo la pratica di altri sport – dal judo alla pallanuoto – per migliorare il controllo del corpo. Il direttore tecnico Marc Overmars mette fine agli acquisti milionari e quando il gioiellino Eriksen passa al Tottenham, viene sostituito da Davy Klaassen, proveniente dalle giovanili. Il precario equilibrio, però, si rompe quando il presidente Steven ten Have annuncia a sorpresa un nuovo direttore generale: Louis van Gaal. «Sono impazziti!», commenta Cruijff, che la prende come una pugnalata alle spalle (quale effettivamente è, visto che nessuno lo aveva avvisato) e subito lascia il consiglio direttivo insieme a tutto il suo esercito. Solo Frank de Boer resiste in trincea e mentre la guerra societaria si trascina in tribunale – che nel febbraio 2012 dichiara irregolare l’ingaggio di Van Gaal – lui porta la squadra alla conquista di un secondo campionato, al termine di una serie di quattordici vittorie consecutive. A fine stagione, il Liverpool gli offre la panchina appena lasciata libera dalla leggenda Kenny Dalglish. Lui dice no grazie, ho un lavoro da finire qui. Anche perché nel frattempo l’esercito è tornato al suo posto e lo spirito di Cruijff aleggia sui canali. Arrivano altri due trionfi in campionato nel 2013 e nel 2014: solo Michels e Van Gaal avevano vinto tanto. Già, Van Gaal. «Non potrei mai essere come lui, ci stava addosso 24 ore al giorno».

Nella primavera del 2016 l’Ajax sembra avviato verso il suo quinto titolo sotto la gestione De Boer, ma qualcosa si rompe – oltre al suo tendine d’Achille, che salta in una partitella di allenamento – e forse non è un caso che avvenga subito dopo la morte di Cruijff. All’ultima giornata basterebbe battere il già retrocesso De Gaafschap per chiudere al primo posto, ma l’Ajax non va oltre l’1-1 e regala il titolo al PSV. Dove Kevin Strootman non gioca più, però di De Boer si ricorda ancora bene: «Ha sempre messo in campo la squadra migliore». Pausa. «Non gli undici giocatori migliori. La squadra migliore». Questa è l’Olanda, e la guerra dei mondi finisce qui.

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