Txiki taka. Begiristain, un rischio dopo l’altro

Non fosse stato per il suo sprezzo del pericolo, forse a Barcellona avrebbero vinto ugualmente, ma non si sarebbero divertiti. Se il calcio europeo degli ultimi anni ha visto srotolarsi un filo che dal Camp Nou è arrivato fino all’Oktoberfest, se oggi espressioni come falso nueve e tiki taka sono entrate nei dizionari, è perché Txiki Begiristain non ha avuto paura di rischiare. Non c’erano molte persone che, nell’estate 2008, sarebbero state pronte a togliere la panchina del Barcellona a Frank Rijkaard per consegnarla a Pep Guardiola, allora trentasettenne allenatore del Barça B. Non più di due, in effetti: Cruijff e Begiristain, l’allievo che del suo insegnamento aveva recepito soprattutto la parte spericolata, quella per cui «mi sono sempre preso un sacco di rischi, ma finché le cose ti limiti a dirle, è ovvio che non succedono», come dice Johan nella splendida intervista con i soliti Barend e Van Dorp in occasione del suo cinquantesimo compleanno.

Dire che Guardiola sarebbe stato l’allenatore del Barcellona, in effetti, era una cosa che avrebbe potuto fare chiunque e che forse qualcuno faceva già da quando a trent’anni aveva lasciato il Barça per la prima volta nella sua vita. Che sarebbe tornato lo sapeva lui e lo sapeva la sua gente, era solo questione di tempo. Così, quando sei anni più tardi Pep aveva davvero fatto ritorno alla Ciutat Deportiva per iniziare dalle giovanili una carriera da allenatore alla quale sembrava destinato fin da ragazzino, nessuno si era stupito. Che però la sua gavetta nel settore giovanile potesse durare appena una stagione, questo era molto meno prevedibile. Tanto più che alla guida della prima squadra c’era uno come Frank Rijkaard, capace di restituire al Barcellona la dimensione spettacolare che da sempre gli appartiene e di riportare in bacheca nel 2006 una Champions League che mancava dal 1992, quando a sollevarla era stato, fra gli altri, proprio Guardiola.

Il fatto è che fra gli altri protagonisti di quella notte a Wembley c’era anche Txiki Begiristain, che dello squadrone allenato da Cruijff era l’ala sinistra. Vale a dire – secondo un pensiero diffuso nel calcio totale – il giocatore autorizzato ad avere la maggiore confidenza con il rischio. E lui aveva decisamente la stoffa per il ruolo: basco di nascita, Txiki era approdato a Barcellona nel 1988 insieme ai conterranei Bakero e Rekarte, dopo che con la Real Sociedad avevano conteso fino all’ultimo ai blaugrana sia il campionato sia la Coppa del Re. Il catalano lo aveva imparato ascoltando la radio e chiacchierando con la gente, subito conquistata grazie al debutto con gol nel derby con l’Espanyol. Cruijff n_f_c_barcelona_aitor_begiristain-5772333parlava di lui come di un “clever player”, che vuol dire intelligente sì, ma anche scaltro, come conferma il sorrisetto con cui Charly Rexach diceva «Begiristain? È l’unico che ho visto uscire senza una macchia da una partita nel fango…» Se n’era andato nel 1995, esasperato dalla gestione Nuñez, e per sette anni e mezzo aveva girato il mondo, prima da giocatore e poi da commentatore per la tv spagnola.

Finché nel 2003 non gli era arrivata notizia che a Barcellona le cose stavano per cambiare. A dirglielo è Joan Laporta in persona, il poco più che quarantenne fresco di elezione a presidente. Catalano e indipendentista militante, ha un modo di porsi completamente diverso rispetto al dispotico Nuñez e nella sua corsa alla presidenza ha potuto contare sull’appoggio decisivo di Cruijff, uno che tutti ascoltano in silenzio quando parla, a Barcellona più ancora che ad Amsterdam. Lo ascolta anche Laporta, e quando Johan gli butta lì il nome di Begiristain per il ruolo di direttore sportivo, la proposta non cade nel vuoto. È un discreto rischio, perché Txiki deve ancora compiere quarant’anni e sarebbe alla sua prima esperienza in quell’ambito, però pochi conoscono l’ambiente meglio di lui e – è questa la caratteristica più importante agli occhi di Crujff – pochi sono disposti a correre dei rischi per seguire le proprie idee. Begiristain non ci pensa due volte e accetta.

È un momento strano per il Barça, che solo nel 2003 ha cambiato tre allenatori, passando da Van Gaal a De la Cruz ad Antic. I blaugrana vengono da un campionato chiuso al sesto posto, il peggior risultato dal 1988 (l’ultimo prima di Cruijff) e hanno bisogno di una rifondazione. A cominciare dalla panchina: la prima decisione di Begiristain da direttore sportivo è di assumere Frank Rijkaard, il cui curriculum da allenatore non è esattamente esaltante, visto che è appena stato licenziato dallo Sparta Rotterdam, che sotto la sua guida è retrocesso per la prima volta nella sua storia. Txiki, però, crede che valga la pena rischiare e il presidente si fida del suo fiuto: la prima stagione si chiude con un secondo posto, la seconda con il titolo numero 17 in Liga, la terza con il primo triplete della storia del club. Poi un secondo e un terzo posto, le stelle Ronaldinho e Deco sbuffano, Rijkaard sente lo spogliatoio scivolargli dalle mani e Begiristain se ne accorge. Per tutta la primavera del 2008 cerca un modo per salvare tutti e tenere sulla panchina del Barça un allenatore che lui stima. Alla fine, però, deve convincersi che la soluzione migliore è cambiare. Una parte del consiglio direttivo spinge per prendere José Mourinho, che al Barcellona ha già lavorato come assistente di Robson e Van Gaal e che in quel momento è il tecnico più desiderato d’Europa. Insieme ai dirigenti Marc Ingla e Ferran Soriano, Txiki vola a Lisbona per incontrarlo. Parlano a lungo, l’accordo è a portata di mano.

Solo che Begiristain ha passato troppo tempo con Cruijff per mettere da parte le proprie idee. A cominciare da quella per cui la sostanza è importante, ma lo stile lo è altrettanto. Le sue scelte di mercato, d’altra parte, sono andate sempre in questa direzione, anche quando c’erano da prendere i difensori centrali: almeno uno dei due doveva essere capace di impostare («un giocatore oltre che un protettore», secondo le parole dello stesso Txiki), nell’ostinata convinzione che i problemi si risolvano attaccando di più e meglio. Ma se è questo quello che vuoi per una squadra, allora Mourinho non è l’allenatore giusto. Così alla fine l’accordo non si chiude, perché Begiristain decide di dare retta all’istinto e di mettere sul tavolo del consiglio direttivo il nome di Pep Guardiola. Un principiante rispetto a Mou, visto che fa l’allenatore da appena un anno, per quanto abbia cominciato con il piede giusto vincendo il campionato con il Barcellona B. Scegliere lui è un rischio gigantesco. Txiki va da Laporta e gli espone la sua idea, Laporta si fida di lui e gli dà il via libera. «Ma Mourinho è la soluzione più facile. È l’allenatore giusto», obietta Guardiola quando il suo ex compagno gli offre la panchina della loro squadra. «Lo so, ma tu sei l’uomo giusto», risponde Txiki. Il seguito è una storia che non sono certo i trofei a raccontare.

Le loro strade si separano nel 2010, quando, con la scadenza del mandato Laporta, Begiristain decide di lasciare a sua volta. Due anni più tardi accetta una sfida di quelle complicate, andando a lavorare al Manchester City. Dove di soldi ce ne sono tanti, di pianificazione molta meno. Lui comincia ristrutturando il settore giovanile e poi portando in Inghilterra un po’ della Spagna campione di tutto, con gli acquisti di Jesus Navas e David Silva. L’allenatore, l’argentino Manuel Pellegrini, è forse più bravo come manager che come tecnico – spesso il suo City ha lasciato il dubbio di cosa avrebbe potuto fare giocando con un’impostazione di squadra più offensiva – ma finché i risultati gli danno ragione, a Manchester non se ne accorge nessuno. Solo alla fine del 2015 si comincia a parlare di un imminente cambio in panchina. Di Pep Guardiola, per l’esattezza, la cui esperienza al Bayern Monaco sembra destinata a chiudersi a fine stagione.

Non è un mistero che Txiki lo voglia al City, l’incognita è quale accoglienza troveranno le idee di Pep a Maine Road. L’Inghilterra non è mai stata terra di calcio totale, anzi. Provare a portarcelo è probabilmente la sfida più intrigante con cui il calcio europeo possa cimentarsi e al tempo stesso un rischio così grande che per correrlo ci sarebbe voluto Cruijff. O Txiki Begiristain.

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