Cuori impavidi. La Scozia che non t’aspetti nella madre di tutte le partite

Sarebbe piaciuta a William Wallace, la prima partita di calcio fra Scozia e Inghilterra, se non per il risultato – un pareggio senza gol -, sicuramente per lo spirito con cui i suoi discendenti sono scesi in campo. Con coraggio e immaginazione. Ne serve veramente tanta, nel gelido pomeriggio del 30 novembre 1872, quando al West of Scotland Cricket Ground, Partick, la squadra di casa affronta in amichevole l’Inghilterra nella prima partita internazionale della storia del calcio. Roba da uomini veri: vento, fango e questi inglesi che, scrive il Glasgow Herald, “pesano in media due stones in più degli scozzesi”. Sono venuti per vincere e per dimostrare quanta differenza ci sia fra chi il calcio l’ha inventato e chi al massimo l’ha importato imparandolo da loro. Le condizioni per sollecitare la coscienza scozzese ci sono tutte e se in tanti sono pronti a scommettere su un’alzata di testa dei padroni di casa, nessuno può immaginare un’autentica rivoluzione, destinata a tracciare una linea di sviluppo per il calcio alternativa a quella inglese pura e che nei successivi centocinquant’anni – con un bagno nel Danubio e qualche mazzo di tulipani – porterà fino a Guardiola.

A sud del Vallo di Adriano si gioca più o meno da 25 anni, ma solo dal 1863, con la pubblicazione delle Rules of Association Football, il calcio ha assunto la sua fisionomia definitiva, che gli permetterà di seguire una vita autonoma rispetto al rugby. Nel giro di pochi anni il numero delle squadre di club è cresciuto al punto che per coordinarle c’è stato di bisogno di fondare una federazione, la FA, nata nel 1863. Quando decidono di organizzare il primo incontro internazionale nella vicina Scozia, il movimento calcistico è già abbastanza numeroso da poter selezionare una squadra nazionale. La tattica – tactics, forse non per caso sempre al plurale come mathematics e politics – nel senso moderno del termine, è ancora di là da venire. Per il momento, il modo di giocare segue le regole del gioco. Su tutte, la famigerata Law 6, antesignana della regola del fuorigioco: “Quando un giocatore ha calciato la palla, quello della stessa squadra che si trova più vicino alla porta avversaria è fuori dal gioco e non può toccare la palla né il alcun modo prevenire un altro giocatore dal farlo, finché la palla viene giocata; ma nessun giocatore è fuori dal gioco quando la palla è calciata da dietro la linea di porta”. Il fatto che in ogni caso l’ultimo uomo in avanti sia in fuorigioco, non solo scoraggia quelle che oggi chiameremmo verticalizzazioni, ma fa sì che si tenda a privilegiare il dribbling game.

Questo tipo di gioco, in parte mutuato dal rugby, ha poco a che vedere con il gesto tecnico del dribbling: consiste piuttosto nell’avanzare con la palla al piede e puntare dritto alla porta avversaria, facendosi largo fra la selva di gambe avversarie che di volta in volta cercheranno di portarsi via il pallone (nel migliore dei casi). Il fatto è che agli occhi degli inglesi appariva sospetta e in un certo senso unfair qualsiasi strategia che non si rivolgesse direttamente all’obiettivo, ma prendesse invece delle strade laterali. Nemmeno la modifica della Law 6 varata nel 1866, che prevedeva la presenza di almeno tre giocatori avversari fra l’ultimo attaccante e la linea di porta affinché questi fosse in gioco, avrebbe originato grandi cambiamenti nel dribbling game e ancora alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento era difficile pensare che se un attaccante era da solo in area, forse conveniva andare a dargli una mano. L’eccezione alla regola – letteralmente – è lo Sheffield Club, che fin dalla fondazione nel 1857 gioca seguendo un suo proprio sistema di regole, pubblicato nel 1862, che non fa alcun riferimento al fuorigioco. Anziché approfittarne per sviluppare un gioco basato sui passaggi, però, prevale la tendenza al lancio lungo e al colpo di testa, che allora era considerato quasi un numero da circo.

Giù al Nord, invece, le cose vanno diversamente. Il movimento calcistico scozzese ha naturalmente una base molto più ristretta rispetto all’Inghilterra dal punto di vista numerico, eppure presenta fin dall’inizio un carattere in un certo senso più “collettivo”. Merito del Queen’s Park, il primo club fondato in Scozia nel 1867, che adotta una versione della Law 6 per cui un giocatore è in fuorigioco solo se si trovava sia oltre il penultimo degli avversari sia nelle ultime 15 iarde del campo. Il che favorisce i passaggi molto di più rispetto a entrambe le varianti delle regole inglesi. Quando il Queen’s accetta di sottostare alla Law 6 per poter entrare a far parte della FA, ormai il “danno” è fatto: come osserva Jonathan Wilson nel suo Inverting the Pyramid, “in Scozia la palla è lì per essere calciata, non semplicemente dribblata”. È il possession game, prima espressione di un calcio basato sulla circolazione della palla, che però per trovare fortuna dovrà passare la Manica.

Il suo riconoscimento come tale coincide con quella che allora era considerata un’impresa impossibile: fermare i maestri inglesi, fisicamente soverchianti e abituati a giocare duro nei contrasti, nella prima partita internazionale mai organizzata. La squadra england_v_scotland_1872scozzese, che non è una vera e propria nazionale perché la Scottish FA nascerà soltanto un anno dopo, è formata interamente dai giocatori del Queen’s Park, che sono quindi abituati a giocare insieme ormai da qualche anno. Prima della partita fanno una cosa alla William Wallace, perché si guardano in faccia e decidono che va bene, gli inglesi sono più grossi e probabilmente sanno fare meglio il dribbling game, ma stavolta gli scozzesi se la giocheranno a modo loro. E per sopperire allo svantaggio sul piano fisico, usano l’immaginazione: niente dribbling, meglio passarsi la palla – anche perché tira tanto di quel vento che tenere il pallone a terra sembra la cosa più semplice – ed evitare per quanto possibile di ingaggiare pericolosi uno contro uno che metterebbero a rischio le gambe, oltre al pallone. Una cosa che sarebbe piaciuta a Johan Cruijff, che un secolo più tardi in Olanda dirà che uno dei segreti del suo modo di giocare è il saper trasformare uno svantaggio in vantaggio.

La differenza fra Scozia e Inghilterra si vede anche negli schieramenti. Gli inglesi si presentano con una batteria di sette avanti e solo quattro giocatori (portiere incluso) a formare le tre linee difensive. Gli scozzesi, invece, rischiano con un 2-2-6, in cui uno solo degli avanti è autorizzato a non tornare indietro. Potranno toglierci la vita, ma non potranno mai toglierci la libertà, giusto?. Il coraggio paga: “The strong point with the home club was that they played excellently well together”, scrive il Glasgow Herald – non Arrigo Sacchi – nella cronaca dell’incontro. Curioso è piuttosto che in una partita con in campo tredici avanti contemporaneamente, non venga segnato nemmeno un gol. Finisce 0-0 e per la Scozia è un trionfo, ideologico ancora prima che nazionale. Significa che il possession game funziona, quindi si può continuare così. Gli inglesi tornano a casa sgomenti, chiedendosi se gli scozzesi avranno lo stesso coraggio anche quando verranno a giocare a Londra nella seconda delle quattro amichevoli programmate dalla FA. Per la cronaca – e per la felicità di William Wallace –, gli scozzesi quel coraggio ce l’avranno: nel marzo 1873 all’Oval di Londra verranno sconfitti 4-2, ma sempre giocando a modo loro, mentre un anno più tardi otterranno in casa la prima storica vittoria contro gli inglesi, 2-1 a Hampden Park.

L’esperimento apparentemente folle di togliere un giocatore dalla linea degli avanti per attaccare meglio sarà perfezionato nel 1885, quando la Scozia sarà pronta a far fare al calcio un nuovo salto, con la trasformazione del centre-forward in centre-half. Ancora vent’anni e l’idea del giocare “excellently well together” sarà pronta per essere esportata sul Continente. Se ne incaricherà un giovane allenatore cresciuto al Nord, che da piccolo si improvvisava raccattapalle se in qualche partita fra squadre scozzesi la palla finiva nei prati vicino a casa sua. D’altra parte, Jimmy Hogan era troppo curioso per non fermarsi a guardare.

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