Richard Witschge. Della stessa sostanza dei sogni

Arrogante, non così bravo come pensava di essere e soprattutto incapace di tenere la bocca chiusa. Ma anche visionario, leggero che sembrava impossibile mettere fine allo scandalo dei suoi dribbling. Era tutto questo, Richard Witschge, quando a metà anni Novanta faceva impazzire gli allenatori e i ragazzini di mezza Europa ogni volta che scendeva in campo accompagnato dalla luce emanata dal fatto di essere il prescelto di Cruijff. Non Bryan Roy, non Dennis Bergkamp, non i fratelli De Boer: quando Johan per la seconda volta nella sua vita lascia l’Ajax per il Barcellona, è lui che vuole con sé. Perché di ragazzi bravi ce ne sono tanti, in quella seconda ondata di ajacidi cresciuti sotto il suo occhio vigile, ma solo uno ha qualcosa in più. È fatto di una sostanza diversa – ci vuole non solo un olandese, ma un ajacide per accorgersene. Cruijff l’aveva capito subito e aveva pure trovato le parole giuste per dirlo: «Può andare molto lontano, ma deve ancora migliorare – dice nel 1991 rispondendo a una domanda dei soliti Barend e Van Dorp – Può essere bravo quanto Van Basten. In ogni caso parliamo di qualità estreme, come con Roy, Bergkamp e Van’t Ship. Witschge ha il vantaggio che ha Van Basten e che avevo anche io. Come si dice? In Spagna la chiamano fibra». Temperamento, suggeriscono i giornalisti: «Esatto, è proprio quello che intendevo». Nel senso che lei e Van Basten litigate sempre con tutti rimediando cartellini gialli e rossi? «Sì. Lo fa anche Witschge».

Bisogna avere un po’ di confidenza con il pensiero di Cruijff per capire il perché di tanta ammirazione nei confronti degli attaccabrighe: siccome Johan parte dal presupposto che i giocatori meno dotati dal punto di vista del talento, sviluppano una mentalità più forte (altrimenti non giocherebbero), è evidente che il fuoriclasse affamato come un gregario è una rarità. In Marco van Basten, che si affacciava in prima squadra ai tempi del primo ritorno di Cruijff all’Ajax e poi aveva deciso la finale di Coppa delle Coppe con lui in panchina, Johan rivedeva molto di sé. Per questo gli si spezza il cuore quando il suo pupillo se ne va al Milan e se la prende con la dirigenza dell’Ajax per non averlo saputo trattenere. Quando, però, guarda meglio nelle giovanili, si accorge che forse non dovrà aspettare molto per trovare un nuovo cigno nero. Richard Witschge è arrivato al De Meer a 13 anni, solo che lui non abitava dall’altra parte della strada come Cruijff e ci aveva messo anni per convincere i genitori a lasciarlo attraversare la città pur di allenarsi nella squadra dei suoi sogni, dove peraltro lo aspettava il fratello maggiore Rob. Quando finalmente approda all’Ajax C1, gioca con Roy, Bergkamp e i gemelli De Boer: sono talmente forti che vincono il loro campionato con 44 punti in 22 partite e una differenza reti di 170. Ad Amsterdam si sparge la voce di questa generazione di fenomeni e di settimana in settimana il loro pubblico diventa sempre più numeroso, tanto che alla fine vanno a vederli giocare in centinaia.

Il 26 ottobre 1986 Witscghe esordisce in Eredivisie. Ha 17 anni, esattamente gli stessi di Cruijff ai tempi del suo debutto in prima squadra, e pazienza se poi a Johan era bastata poco più di un’ora per segnare il suo primo gol in campionato, mentre a Richard servirà un anno. La fibra sarà anche la stessa, ma le caratteristiche sono diverse, perché il Prescelto vede la porta molto meno del suo maestro e pure di Van Basten. In compenso si muove con un’agilità e una leggerezza che è un piacere. Nonostante la giovanissima età, dall’estero cominciato ad arrivare offerte, che lui declina solo dopo aver ascoltato il parere di Cruijff.

La proposta che non si può rifiutare è quella che nel 1991 arriva dal Barcellona, e non per witschge-barcellonasoldi. A volerlo al Camp Nou è Johan in persona, nel frattempo tornato in blaugrana per la seconda volta dopo aver litigato (ancora) con i dirigenti dell’Ajax e forse anche per questo ancora più determinato a strappare ad Amsterdam il suo tulipano più bello. Witschge – che intanto è stato pubblicamente investito del ruolo di erede di Van Basten – non ha bisogno di pensarci e immediatamente raggiunge il suo maestro a Barcellona. Lo aspetta una squadra stellare – Stoichkov, Laudrup, Koeman, solo per dare un’idea – che nel 1992 mette nella bacheca del club la sua prima storica Coppa dei Campioni. A decidere la finale di Wembley contro la Sampdoria di Boskov è una rete di Ronald Koeman, la scelta azzeccata di Cruijff, che all’ultimo momento lo preferisce ad Alexanco e di fatto impedisce a Witscghe di essere della partita, visto che allora il regolamento consentiva un massimo di 3 stranieri in campo. Richard fatica a farsene una ragione e ancora di meno riesce a farsene una l’anno successivo, quando finisce spesso in panchina. Nell’estate del 1993 cambia casa e campionato, raggiungendo il Bordeaux: all’inizio tutto bene, poi una serie di prestazioni sottotono convincono l’allenatore Toni ad affidare la fantasia dei Girondini a un ventunenne dalla classe immensa che risponde al buffo nome di Zinedine Zidane.

Così, nel mercato di gennaio del 1995 per Witschge si spalancano le porte della Premier League. Meglio, della capolista in Premier League, perché a volerlo in prestito è il Blackburn di Kenny Dalglish, rivelazione della stagione e lanciato verso il suo terzo titolo in campionato. I Rovers hanno un disperato bisogno di un rincalzo in attacco, dopo che Jason Wilcox ha detto addio al resto della stagione rompendosi un ginocchio. Sembra il posto ideale per risollevare il morale di Richard, che avrebbe l’opportunità di fare l’eroe venuto a salvare il destino della squadra. Non fosse che il posto in questione è Blackburn, Lancashire, e che sono passati duecento anni dal rinascimento industriale della città, principale centro del settore tessile. «Non riesco a crederci, è talmente triste e povera…», non si dà pace Witschge. Però almeno c’è il campo e lì quelli fatti della sua fibra dovrebbero farsi valere. In teoria, almeno. In pratica, però, la vita quotidiana al Blackburn è esemplare di quanto l’Inghilterra sia molto poco accogliente – per non dire tollerante – nei confronti di un certo tipo di giocatore: da buon allievo di Cruijff, Richard dice quello che pensa senza tanti giri di parole, specialmente se si tratta di qualcosa che non gli piace. Già dopo poche settimane, tanto Dalglish quanto capitan Shearer non lo sopportano più, al punto che l’allenatore gli preferisce un Le Saux fuori ruolo. La sua parentesi inglese si chiuderà con una sola presenza e lui per andarsene non aspetterà nemmeno la fine della festa per la conquista della Premier.

Tutta la frustrazione accumulata nel Lancashire esplode qualche anno dopo, quando in un’intervista prima dell’Europeo inglese Witschge si lascia andare a considerazioni come «tatticamente i Rovers erano dei selvaggi», «Le Saux non sapeva cosa fare quando aveva il pallone», «era solo un operaio come la maggior parte dei giocatori inglesi». C’è un solo posto in grado di capire tutto questo: l’Ajax, naturalmente, che nel 1996 gli offre una via di fuga riportandolo a casa. Ad Amsterdam Richard ritrova molti dei vecchi compagni della squadra C1 e anche se non gioca moltissimo, le prestazioni tornano quelle di una volta. Almeno finché l’allenatore Co Adriaanse non ne ha abbastanza dei suoi consigli non richiesti e preferisce consegnare la maglia da titolare nel suo ruolo al diciottenne Rafael van der Vaart. Witschge finisce in prestito all’Alaves, dove non lascia traccia e anche il suo ritorno al Camp Nou viene accolto con indifferenza. Quando torna in Europa dal Giappone, dove ha chiuso la carriera da giocatore nell’Oita Trinita, il suo futuro è un grigio con poche sfumature. Solo l’Ajax potrebbe salvarlo.

E nel 2013 l’Ajax lo salva – ancora – perché quando si tratta di discutere il nuovo organigramma tecnico delle giovanili, nel consiglio viene fuori il suo nome. Qualcuno è contrario, ma il direttore sportivo Danny Blind è pronto a combattere per lui e alla fine il suo parere è decisivo, insieme a quello di Ronald Koeman, che dieci anni dopo si fa perdonare per avergli soffiato il posto a Wembley facendogli ottenere un lavoro al Toekomst, quartier generale dell’esercito di Cruijff oltre che settore giovanile dell’Ajax. Heer Blind, ma perché proprio quell’arrogante di Witschge?, chiedono i colletti bianchi del consiglio direttivo. Perché ha qualcosa, risponde Blind, qualcosa che è parte dell’anima del calcio olandese. In Spagna la chiamano Fibra.

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