Lucien Favre. Due settimane per innamorarsi

Altro che Balotelli. Il nome magico del Nizza primo in classifica è un altro: Lucien Favre, 59 anni da Saint-Barthélemy, Svizzera francese, l’uomo capace di portare il calcio di Cruijff nel feudo di Hannes Weisweiler quarant’anni dopo uno dei più celebri ammutinamenti della storia – e di farsi applaudire per questo. L’avventura al Borussia Mönchengladbach avrebbe meritato un finale diverso dalle dimissioni che poco meno di un anno fa hanno costretto il tecnico a una lunga astinenza dal campo e che forse l’hanno fatto arrivare particolarmente affamato al nuovo incarico in Costa Azzurra.

All’Allianz Riviera in pochi si sarebbero aspettati di vedere il giovane club in testa alla classifica della Ligue1 ancora dopo sette partite, con zero sconfitte e due prestigiosi successi contro Monaco e Marsiglia. Un primato costruito sull’eclettismo, se è vero che il Nizza finora ha vinto un po’ in tutti i modi: con lezioni gratuite di calcio come quella impartita ai biancorossi del Principato, con rimonte mozzafiato come successo con l’Olympique o ancora con sudati 1-0 in trasferta come nell’ultima giornata sul campo del Nancy. Con Favre, d’altra parte, bisogna essere pronti a tutto perché, come dice lui, «nel calcio non c’è la verità» e a volerla dire tutta, nemmeno la filosofia: «Parlerei piuttosto di idea». La sua prima e fondamentale idea è che il calcio è sempre bello, in partita come in allenamento, e lo dimostra il fatto che nelle sue sedute, mentre i suoi giocatori si riscaldano, lui palleggia per una ventina di minuti insieme al suo vice. La sua seconda idea è che nel calcio in realtà non ci sia nulla di nuovo: «Tutto è già stato giocato, abbiamo già visto tutto».

Gli altri almeno se lo dimenticano, lui no: guarda partite da quando aveva 12 anni ed è in grado di ricordare perfettamente tutti gli incontri più importanti giocati dal 1970 a oggi, formazioni e cambi di sistema inclusi. I ricordi più belli, però, sono legati alle due settimane passate a Barcellona nell’inverno 1993, quando non aveva ancora 35 anni e non sapeva se la panchina potesse fare per lui, costretto a interrompere una carriera di medio livello fra Francia e Svizzera a causa di un intervento killer di Pierre-Albert Chapuisat, padre di Stéphane, che di quel fallo avrebbe dovuto rispondere anche in tribunale. Dopo una prima esperienza con i ragazzini dell’Echallens «tanto per vedere com’era», fa domanda per uno stage nella migliore università possibile, il Barcellona di Cruijff che solo sei mesi prima ha messo in bacheca la prima Coppa Campioni della sua storia. «In quelle due settimane per me era tutto aperto e accessibile», a cominciare dagli allenamenti che cominciavano e finivano con il pallone – una rarità per l’epoca –, in cui poteva succedere di vedere Koeman e Guardiola esercitarsi su passaggi rasoterra di 30 metri, destro e sinistro, precisione millimetrica. «Vedi, è la tecnica in movimento che fa la differenza», gli dice Cruijff senza staccare gli occhi dal campo, dove non guarda mica il giocatore che ha la palla, piuttosto osserva come si muovono quelli che non ce l’hanno.

Un’attenzione che Favre avrebbe fatto sua una volta deciso che sì, la carriera di allenatore può renderlo felice: tre stagioni con gli svizzeri dell’Yverdon, poi la prima chiamata importante, quella dello Zurigo, che gli affida la panchina inizialmente destinata a Joachim Löw – il futuro ct aveva temporeggiato un po’ troppo – e gli chiede di salvare una squadra ultima in classifica. Contro tutti i pronostici, Favre non solo ci riesce, ma vince pure la Coppa nazionale e nelle successive tre stagioni mette in bacheca due campionati. Il 2007 è l’anno del salto in Bundesliga, dove lo aspetta l’Hertha Berlino, ed è qui che si celebra il trionfo della sua idea di velocità. «Velocità nell’andare in profondità, velocità con la palla, velocità di pensiero»: l’Alte Dame gioca al ritmo più alto dell’intero campionato, al punto che a volte fra la ricezione della palla e il passaggio successivo passa meno di un secondo. Non è la frenesia di quando il pallone scotta, ma l’idea di pensare in anticipo alla situazione che verrà subito dopo, concetto cardine del calcio di Cruijff, ma fondamentale già nella scuola viennese degli anni Trenta. La luna di miele berlinese, però, si interrompe bruscamente nel 2010, con tanto di conferenza stampa al veleno dopo l’esonero e rottura totale con suo storico vice Harald Gämperle.

Anche per questo, quando pochi mesi più tardi gli propongono di subentrare alla guida del Borussia Mönchengladbach, Favre preferisce tenere la guardia alta. Accetta l’incarico, così simile alla situazione che aveva trovato a Zurigo, con la squadra ultima in classifica e pochi soldi da spendere sul mercato, anche se qui in più c’è un passato che pesa. I settori della tribuna d’onore del Borussia Park sono intitolati ai momenti più alti della storia del club, che nei primi anni Settanta dominava in Germania e in Europa, con il genio ribelle Günter Netzer in campo e Hannes Weisweiler in panchina. La gente da queste parti si ricorda tutto. In compenso, per risollevare le sorti del Borussia, il nuovo allenatore si ritrova una squadra giovane e disposta a imparare, con almeno un paio di ragazzi che fanno da subito la differenza. Il primo è il portiere, Marc-Andre ter Stegen, «che sembra uscito da una squadra di pallamano», ma ha del talento quando si tratta di giocare con la squadra, una cosa che Favre ha imparato ad apprezzare in quelle due settimane che gli hanno cambiato la vita – a proposito, attualmente Ter Stegen è il portiere del Barcellona. L’altro si chiama Marco Reus e sulle rive del Reno si sta prendendo una rivincita su quelli che a Dortmund lo hanno bocciato per il fisico troppo esile. Con lui Favre può far fare al suo gioco uno scatto ulteriore in termini di spettacolo e anche di efficacia: «Se sai dribblare tre avversari, stai lavorando per la squadra» dice a Marco per incoraggiarlo a non mettere mai da parte lo spunto per timore di essere egoista. «Mi diceva di guardare i piedi dell’avversario che dovevo saltare, perché avrebbero tradito da che parte sarebbe andato. Funziona…»

Funziona anche il Gladbach, che naturalmente si salva, e che a un certo punto gioca talmente bene che sulle pagine del Guardian si parla di “Borussia Barcellona”. Barcellona, sì, come quelle due settimane d’inverno in cui Favre vedeva da vicino quanto radicale fosse la lezione di Cruijff. Anche qui lo aiutava la memoria: «Mi ricordo della partita che la Spagna giocò nel 1975 contro la Jugoslavia per le qualificazioni agli Europei del ’76. Non era calcio, era una vergogna. La Spagna aveva i due centrali di difesa che erano dei killer. Quando Cruijff ha portato la sua idea al Barcellona, è cambiato tutto: giocare palla a terra, possesso palla, evitare i classici uno contro uno – questo era Johan Cruijff».
Eppure anche dai maestri bisogna saper prendere le distanze: «Quando andai a studiare da lui, faceva giocare il Barcellona con il 3-4-3 dall’inizio alla fine della partita. Oggi questo non è più pensabile». Per questo Favre fa allenare le sue squadre su diversi sistemi di gioco e insegna a passare con naturalezza dall’uno all’altro a seconda delle situazioni che possono darsi in una partita. E anche a improvvisare, in un certo senso. «L’improvvisazione è tutto», dice una delle sue più celebri citazioni, dove però l’imprevedibile va inteso come il risultato di un processo di apprendimento. Lo sanno bene in Bundesliga, dove tutte, incluse il Bayern Monaco del triplete e il Dortmund di Klopp, sono uscite con le ossa rotte dal confronto con il Gladbach, e tutte con lo stesso commento: è difficile giocare contro di loro perché non sai mai quello che stanno per fare.

Hanno cominciato a capirlo all’inizio della sua sesta stagione in panchina, quando cinque sconfitte nelle prime cinque gare di campionato lo hanno convinto a dare le dimissioni. La vacanza forzata è stata una tortura, ma per fortuna è finita. E in fondo Nizza non è neanche tanto lontana da Barcellona.

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