L’eresia inglese/1. Il richiamo della casa d’Orange

La gloriosa rivoluzione torna indietro. Duecentotrent’anni dopo Guglielmo III, sono gli inglesi a risolvere i problemi al di là della Manica: non è un re quello di cui ha bisogno l’Olanda nella seconda decade del Novecento, piuttosto un maestro di calcio, sport che a cavallo dei due secoli si è conquistato un folto seguito di appassionati, dalla Frisia al Mare del Nord. D’altra parte, chi potrebbe spiegare il football meglio degli inglesi, che si fregiano di averlo inventato, riempiono ogni settimana gli stadi con migliaia di spettatori e giocano il loro campionato nazionale ormai da vent’anni? Sarebbe perfetto: un drappello di allenatori attraversa la Manica e diffonde nella terra d’Orange i metodi del beautiful game.

Perfetto sì, non fosse che della loro perizia calcistica gli inglesi sono oltremodo gelosi: non solo non hanno alcuna intenzione di confrontarsi con le squadre straniere, figuriamoci se sono disposti a dare lezioni private in giro. Tanta sicurezza ha però anche la sua controparte di intolleranza e allora guai a non pensarla come il kick and rush dei padri fondatori, calcia più forte che puoi e poi comincia a correre più forte che puoi per arrivare primo sul pallone. This is the English courage, direbbe Robin Hood. Impossibile insegnarlo a chi inglese non è. Succede così che dai confini dell’Isola esca soltanto il peggio che il calcio inglese abbia da offrire. Dilettanti finiti in Marina per riuscire a mangiare tutti i giorni, irlandesi discriminati e bizzarri visionari che in patria non avrebbero allenato nemmeno i bambini, per tutti c’è un biglietto di sola andata con destinazione Vecchio Continente, dove l’occhio incolto di presidenti e pubblico non farà caso a qualche licenza poetica.

L’anno zero del calcio totale è il 1910. In inverno sbarca a Dordrecht un irlandese cattolico cresciuto nel Lancashire. Si chiama Jimmy Hogan e ha solo 28 anni. Nella città santa dell’indipendenza olandese è già stato un anno prima, nel corso di una tournée continentale con il suo club, lo Swindon Town. Adesso che ha smesso di giocare, Jimmy ha una gran voglia di fare l’allenatore, ma nessuna esperienza che gli permetta di candidarsi a una panchina in patria. Allora si ricorda di quei bravi ragazzi di Dordrecht, rigorosamente dilettanti, che pur perdendo nettamente con gli inglesi, avevano dimostrato di saperci fare. A colpirlo era stata soprattutto la loro abilità nei passaggi brevi – merce rara sui campi inglesi – che Hogan aveva ammirato giovanissimo quando qualche formazione scozzese sconfinava dalle sue parti. D’altronde, fra pioggia, vento e fango, niente di strano che al di là del vallo di Adriano ci pensassero bene prima di arrischiare un lancio lungo. A Dordrecht Jimmy può finalmente sperimentare gli effetti del controllo di palla e della precisione dei passaggi, che gli olandesi sembrano imparare senza difficoltà. Il suo lavoro non passa inosservato alla Federazione olandese, che lo ingaggia per guidare la nazionale nell’amichevole di Arnheim che inaugura la rivalità infinita contro la Germania: i dilettanti di Hogan danno spettacolo e si impongono 4-2.

Pochi mesi più tardi, il presidente dell’Ajax Chris Holst ha una decisione importante da prendere. La squadra è appena retrocessa nella seconda serie e a questo punto non ci sono che due strade: lasciarla al suo dilettantismo o fare un investimento che le permetta di salire di livello una volta per tutte. Da buon olandese, Holst sceglie la seconda opzione e si mette subito in viaggio per l’Inghilterra, deciso a non tornare ad Amsterdam senza il nuovo allenatore dell’Ajax. Lo individua in Jack Kirwan, irlandese come Hogan, ma con alle spalle una gloriosa militanza nel Tottenham, culminata nella prima storica FA Cup conquistata nel 1901. Sarà lui il primo allenatore professionista della storia dell’Ajax.

Quando arriva in Olanda, anche Kirwan ci mette poco a capire che qui i giocatori sono portati per un gioco che privilegi il pallone piuttosto che la corsa ed è su questo che si mette a lavorare: già al primo anno centra la promozione nella serie maggiore, al secondo chiude ottavo con menzione di lode e per completare l’addestramento dei suoi, in estate porta la squadra in tournée per studiare dai migliori. Solo che non si va in Inghilterra, ma in Austria e in Ungheria, dove in quegli anni sta nascendo quello che passerà alla storia come il Donaufußball, fatto di eleganti fraseggi che richiedono tecnica e visione di gioco. A Budapest l’Ajax rimedia un 1-5 dall’MTK, ma per Kirwan è tutta salute.

Tornato ad Amsterdam, il tecnico non si limita a lavorare sul campo: è lui a scegliere la divisa sociale con la larga banda rossa al centro della maglia e i calzoncini bianchi in luogo delle iniziali strisce biancorosse e dei calzoncini neri che ora rischiano di confondere la squadra di Aiace Telamonio con lo Sparta Rotterdam. Sua è anche la decisione di affiancare al nome dell’eroe acheo quello della città: d’ora in poi sullo stemma ci sarà scritto Ajax Amsterdam. La sua rivoluzione, però, non riesce a migliorare i risultati in campionato e dopo il nono posto della stagione 1912-13, l’anno dopo arriva la retrocessione. La maggior parte dei giocatori lascia la squadra e Kirwan si appresta a una difficile ricostruzione, quando lo scoppio della Prima Guerra Mondiale lo costringe a rientrare in Inghilterra. Al termine del conflitto, però, i buoni servigi resi oltremanica non gli bastano a trovare una panchina, così Jack salpa ancora una volta per il Continente, stavolta con destinazione Livorno, che guiderà a uno storico secondo posto nel 1923, alle spalle della sola Inter.

Intanto l’invasione tedesca del Belgio dà inizio al bagno di sangue del fronte occidentale. L’Olanda mantiene la neutralità, ma ospita sul suo territorio diversi campi per prigionieri di guerra. In quello situato vicino a Groningen è internato Harry Waites, richiamato alle armi in quanto riservista della Royal Navy dopo 12 anni di onorato servizio. In realtà Harry avrebbe voluto fare il calciatore, ma nella Londra di inizio secolo mangiare tutti i giorni era un’esigenza che il pallone ancora non poteva soddisfare, tanto da convincerlo a mettere da parte i sogni e arruolarsi in Marina. Solo ora, con l’esercito inglese in rotta e una guerra di cui non si vede la fine, Waites torna a pensare al calcio, anche per non deludere qualcuno nel campo che – sbagliando – pensa di aver riconosciuto in lui un giocatore famoso. Harry torna in campo con la squadra dei prigionieri e ci vuole poco perché ne venga promosso allenatore. Ed è pure bravo.

Nel 1918 la guerra finisce, lui torna a casa e trova un paese prostrato dai debiti bellici e dalla disoccupazione. Decide di tornare in Olanda, prima a Groningen, poi in Frisia, dalla quale fugge precipitosamente nel 1924 per via di una ragazza con la metà dei suoi anni e una gravidanza indesiderata. Trova rifugio a Rotterdam, dove gli viene offerta la panchina del Feyenoord, appena lasciata vacante da un altro inglese, Bill Julian, che in Olanda ci era arrivato da uomo libero, seguendo il padre allenatore dell’Harlem. Con la squadra dei portuali è subito amore, culminato nella conquista del primo titolo nazionale nello stesso 1924, prima di fare definitivamente ritorno in Inghilterra e ritirarsi per sempre del calcio. Tanto ormai la missione era compiuta.

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